Il contributo causale del partecipe di un’associazione per delinquere di stampo mafiosa.

Con la pronuncia in oggetto la Cassazione ha nuovamente sentenziato sul tema relativo al contributo causale che ciascun partecipe ad associazioni di stampo mafioso debba porre in essere per rispondere del delitto di cui all’art. 416 bis c.p.

Si tratta di una problematica, ricorda la Corte, su cui si riscontrano diversi orientamenti giurisprudenziali: << Secondo una prima tesi (cd. del “Modello organizzatorio“), ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso, non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perché il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla sola dichiarata adesione all’associazione da parte di un singolo, il quale presti la propria disponibilità (con la cd. messa a disposizione”) ad agire quale “uomo d’onore”. La suddetta qualità non è significativa di un’adesione morale meramente passiva ed improduttiva di effetti al sodalizio mafioso, ma presuppone la permanente ed incondizionata offerta di contributo, anche materiale, in favore di esso, con messa a disposizione di ogni energia e risorsa personale per qualsiasi impiego criminale richiesto; l’obbligo così assunto rafforza il proposito criminoso degli altri associati ed accresce le potenzialità operative e la complessiva capacità di intimidazione ed infiltrazione nel tessuto sociale del sodalizio: ex plurimis, Cass. 6992/1992 Rv. 190643; Cass. 2046/1996 Rv. 206319; Cass. 5343/2000 Rv 215907; Cass. 2350/2005 Rv. 230718; Cass. 23687/2012 Rv 253222; Cass. 49793/2013 Rv 257826; Cass. 6882/2016 Rv. 266064 (in motivazione § 3); Cass. 50864/2016 Rv. 268445 secondo la quale affinché un soggetto sia ritenuto partecipe di un’associazione mafiosa, è necessario che sia rimasto a disposizione della medesima associazione, assicurando, con una presenza anche solo passiva, l’incremento del numero dei soggetti disposti ad agire per le finalità dell’associazione. Secondo, invece, un diverso indirizzo giurisprudenziale, ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso, può essere insufficiente la mera indicazione della qualità formale di affiliato, laddove alla stessa non si correli la realizzazione di un qualsivoglia “apporto” alla vita dell’associazione, idoneo a far ritenere che il soggetto si sia inserito nel sodalizio in  modo stabile e pienamente consapevole: Cass. 39543/2013 Rv. 257447; Cass. 46070/2015 Rv. 265536; Cass. 55359/2016 Rv. 269040. E’ questa la tesi cd. “causale” per la quale, appunto, non è sufficiente il semplice inserimento nell’associazione mafiosa, occorrendo la prova che l’affiliato abbia dato un contributo apprezzabile al rafforzamento del sodalizio >>.

La Corte aderisce al tradizionale e maggioritario primo indirizzo.
Di seguito si riportano letteralmente i passaggi della sentenza che illustrano le ragioni in punto di diritto che supportano la tesi maggioritaria:
<< La tesi qui non condivisa, fa leva, sostanzialmente, su tre argomenti:
a) l’argomento letterale desumibile dal parallelo fra l’art. 416 bis e 416 cod. pen.;
b) l’interpretazione della norma costituzionalmente orientata al fine di evitare la violazione dei principi di materialità, offensività e proporzionalità;
c) l’aderenza alla sentenza delle SSUU n. 33748/2005 rv 231670.

L’argomento letterale è così motivato: «La laconica espressione legislativa contenuta nel c.1 dell’art. 416 bis cod.pen . … far parte di … [….] ha da sempre determinato la ineliminabile necessità di una concretizzazione giurisprudenziale della nozione, tesa – in tutta evidenza – a rendere più chiaro e percepibile (in aderenza ai principi costituzionali di tipicità, materialità, offensività) il contenuto del precetto, che rimanda non già ad una singola e specifica condotta ma ad un «effetto» di più potenziali condotte. Il soggetto che … “fa parte” … è, in via logica e giuridica un membro tendenzialmente permanente del gruppo criminoso, dunque una persona che, consapevole delle finalità complessive dell’agire collettivo e desideroso di perseguirle pro quota, le fa sue ed impiega (quantomeno) una frazione del suo tempo e delle sue energie allo scopo di realizzarle. Ciò postula, in via logica, un accordo di ingresso, con accettazione delle regole da parte dell’affiliato e riconoscimento della sua volontà da parte del gruppo (secondo alcuni trattasi di momento già punibile, ma sul tema si tornerà in seguito) e una successiva, concreta attivazione del soggetto in favore di se stesso (in quanto membro di un gruppo destinato a realizzare potere e profitti) e della associazione complessivamente intesa [….] sul piano oggettivo, è da ritenersi che non potendosi ritenere sufficiente la mera ed astratta «messa a disposizione» delle proprie energie (dato che ciò, oltre a costituire un dato di notevole evanescenza sul piano dimostrativo, si porrebbe in insanabile contrasto con il fondamentale principio di materialità delle condotte punibili di cui all’art. 25 Cost.), va riscontrato in concreto il «fattivo inserimento» nell’organizzazione criminale, attraverso la ricostruzione – sia pure per indizi – di un «ruolo» svolto dall’agente o comunque di singole condotte che – per la loro particolare capacità dimostrativa – possano essere ritenute quali «indici rivelatori» dell’avvenuto inserimento nella realtà dinamica ed organizzativa del gruppo» (Cass. 55359/2016 cit. § 3.1.). In altri termini, il “far parte di un’associazione di tipo mafioso” implicherebbe l’indicazione ed individuazione (da parte della pubblica accusa) dell’aspetto dinamico del ruolo che ogni associato in essa ricopra, in ciò distinguendosi la locuzione dell’art. 416 bis cod. pen. da quella dell’art. 416 cod. pen. che, facendo riferimento al semplice associarsi (primo comma) o al “solo fatto di partecipare all’associazione” (secondo comma), indicherebbe, invece, una posizione statica.
Da qui la seguente conclusione: siccome la semplice affiliazione o messa a disposizione non implica alcun ruolo attivo e causalmente efficiente per la dinamica associativa, quella condotta non è penalmente punibile. Osserva questa Corte in contrario, che il suddetto criterio interpretativo non appare dirimente non solo perché le diverse locuzioni adoperate negli artt. 416 (“partecipare“) e 416 bis cod. pen. (“far parte“), a ben vedere, sono dei sinonimi ma anche e soprattutto perché, a livello semantico, nulla consente di affermare che il “far parte” indichi un’attività avente natura dinamica a differenza del “partecipare” che indicherebbe un’attività statica.
In altri termini, poiché negli artt. 416-416 bis cod. pen., è prevista la punibilità per la sola partecipazione (senza, quindi, alcuna aggettivazione né “attiva” nè “passiva”), ne consegue che non appare possibile un’interpretazione diversa da quella letterale.
Né si può interpretare – come pure è stato prospettato dalla tesi qui non condivisa – l’art. 416 bis cod. pen. alla stregua dell’art. 2 della cit. Decisione quadro n. 2008/841/GAI, nella parte in cui prevede la punibilità di chi «partecipi attivamente alle attività criminali dell’organizzazione».
Le Decisioni quadro, sono atti atipici di indirizzo dell’Unione europea (aboliti con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, nel dicembre 2009) che impongono agli Stati un obbligo di risultato, atteggiandosi in modo simile alle fonti tipiche, ovvero alle direttive.
Tali atti, dal momento in cui scade il termine per la trasposizione del loro contenuto nel diritto interno (nella specie, 1’11/05/2010), onerano il giudice ad interpretare la disciplina nazionale in modo “conforme” alle linee-guida tracciate dalla Decisione, con il limite del rispetto dei principi generali dell’ordinamento (v. sentenze del 16 giugno 2005, Pupino, C 105/03, EU:C:2005:386, punto 44, e del 5 settembre 2012, Lopes Da Silva Jorge, C 42/11, EU:C:2012:517, punto 55, nonché la sentenza della Grande Sezione dell’8 novembre 2016 nel procedimento a carico di Atanas Ognyanov, §§ da 61 a 66).
Orbene, la suddetta decisione era, soprattutto, finalizzata ad ottenere che tutti gli Stati membri adottassero “le misure necessarie per far sì che sia considerato reato” “l’organizzazione criminale”: necessità estranea all’Italia che, avendo già disciplinato la materia, non era vincolata «ad alcun risultato da ottenere».
D’altra parte, in realtà, la semplice affiliazione ad un’associazione criminale, implica, di per sé, “una partecipazione attiva” alla vita associativa e la sua punibilità appare del tutto coerente con i principi costituzionali del nostro ordinamento (cfr infra).
Infatti, “la partecipazione attiva” è un vero e proprio pleonasmo laddove si consideri che il verbo “partecipare” significa – secondo l’uso corrente – prendere parte attiva, con il proprio contributo, ad un’attività svolta da più persone, contributo che, sotto il profilo giuridico, può essere anche di sola adesione morale secondo i consolidati principi di diritto enunciati da questa Corte di legittimità (ex plurimis: Cass. 2148/1988 rv. 177662; Cass. 12591/1995 rv. 203948; SSUU 45276/2003 Rv. 226101; Cass. 7643/2015 rv. 262310).
In realtà, ad avviso di questa Corte, la soluzione al quesito in esame va trovata esaminando la problematica sotto due diversi ma connessi profili: quello dell’analisi giuridica della struttura del reato di partecipazione e quello del significato che assume per l’associato l’affiliazione [rectius: l’ammissione] e, quindi, la partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso.
Il primo comma dell’art. 416 bis cod. pen., prevede la punibilità per il semplice “far parte di un’associazione di tipo mafioso“. A livello strutturale, il suddetto reato si può classificare come un reato a forma libera e di pura condotta perché si perfeziona con il compimento di una determinata azione, ossia, con l’entrare a far parte di un’associazione.
Ove, invece, lo si esamini sotto il diverso profilo della lesione del bene protetto, il reato in esame si può qualificare come un reato di pericolo presunto (ex plurimis, Cass. 3027/2016, Ferminio; Cass. 34147/2015 rv 264623) come tradizionalmente viene ritenuta ogni forma di partecipazione ad un’associazione criminale: quanto all’art. 270 cod. pen.: Cass. 4924/1989 rv. 180984; quanto all’art. 270 bis cod. pen.: Cass. 48001/2016 rv. 268164 (in motivazione), Cass. 30824/2006 rv. 234182; quanto all’art. 270 quater cod. pen.: Cass. 40699/2015 rv 264719 (in motivazione); quanto all’art. 74 dpr 309/1990: Cass. 21956/2005 rv. 231972; Cass. 17702/2010 rv. 247059.
La caratteristica dei reati di pericolo presunto consiste nella repressione di una condotta che – secondo l’insindacabile valutazione prevista dal legislatore – è idonea di per sé, a mettere in pericolo un determinato bene giuridico meritevole di essere tutelato in una fase anticipata e, quindi, a prescindere dalla sua concreta lesione.
Va osservato che la suddetta categoria di reati è già stata ritenuta – sotto il profilo degli artt. 25-27 Cost. – costituzionalmente legittima dalla Corte Cost. (sentenza n. 333/1991 secondo la quale spetta al legislatore: «l’individuazione sia delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo sia della soglia di pericolosità alla quale far riferimento, purchè, peraltro, l’una e l’altra determinazione non siano irrazionali ed arbitrarie, ciò che si verifica allorquando esse non siano collegabili all’id quod plerumque accidit») e dalla più recente dottrina, sia sotto il profilo della tipizzazione che dell’offensività (sia pure da valutare in concreto: Corte Cost. cit.; Corte Cost. sentenza n. 225/2008), fatta eccezione per i soli casi in cui la condotta prevista entri in conflitto con altri valori costituzionalmente protetti (cfr Corte Cost. sentenza n. 65/1970 in relazione all’art. 414 cod. pen.); sulla proporzionalità della pena, da ultimo Corte Cost. sentenza n. 236/2016.
Se, dunque, la semplice partecipazione all’associazione, costituisce un reato di pericolo presunto perché mette in pericolo, ex se, l’ordine pubblico, si spiega anche il motivo per cui il legislatore non ha richiesto che la partecipazione abbia una particolare connotazione sotto il profilo causale: infatti, una previsione del genere significherebbe trasformare il reato di partecipazione all’associazione per delinquere di stampo mafioso, da reato di pericolo presunto in un reato di evento con conseguente necessità di provare il nesso causale fra quella condotta (la partecipazione) ed il rafforzamento del sodalizio criminale (l’evento).
Inoltre, la tesi causale finisce per confondere e sovrapporre la condotta di associazione (e, quindi, il disvalore connesso al semplice ruolo – qualsiasi esso sia – che si riveste nell’ambito associativo) con le (eventuali) attività dell’associazione (quindi con la condotta dinamica dell’associazione): infatti, l’assunzione di un ruolo all’interno dell’associazione configura una condotta del tutto distinta dalle attività dirette ad esercitare concretamente tale funzione in vista dei singoli obiettivi di volta in volta programmati, condotta questa che, sotto il profilo fattuale, è dell’associazione e che corrisponde, normalmente, alla commissione dei reati scopo.
E’, pertanto, da condividere la tesi del cd. “Modello organizzatorio” che, facendo leva sul semplice inserimento organico del soggetto nell’organizzazione dell’associazione e, quindi, sul ruolo stabile che in essa assume, consente anche di distinguere agevolmente la partecipazione interna (caratterizzata dalla cd. affectio societatis) dal concorso esterno.
In altri termini, il ruolo di “socio” che si assume dopo essere stati ammessi a far parte dell’associazione criminale, costituisce, di per sé, una condotta tipica che va sanzionata penalmente perché anche il semplice inserimento nell’organizzazione di un nuovo soggetto costituisce un rafforzamento dell’associazione secondo intuitive massime d’esperienza fondate sull’id quod plerumque accidit: gli altri soci sanno di potere fare affidamento, nel momento del bisogno, sul nuovo associato; la potenza, l’invasività e la capacità d’intimidazione di un’associazione criminale si fonda anche e soprattutto sul numero degli affiliati.
La conclusione alla quale si è giunti è coerente con quanto statuito dalle SSUU n. 33748/2005, Mannino relativamente alle quali, infatti, questa Corte, sul punto, ha condivisibilmente osservato: «[…] le forme della partecipazione possono essere le più diverse, possono essere non appariscenti e possono assumere connotati coincidenti – all’apparenza – con le normali esplicazioni della vita quotidiana e lavorativa (come avviene, per esempio, con l’imprenditore colluso). Infine, va tenuto conto del fatto che l’associazione mafiosa è una realtà “dinamica”, in continuo movimento, che si adegua continuamente alle modificazioni del corpo sociale e all’evoluzione dei rapporti di forza tra gli aderenti. Per tutti questi motivi ricercare un “ruolo” stabile e predefinito (come hanno preteso di fare i ricorrenti) dell’associato all’interno del sodalizio, quasi si trattasse ‘di definirne il profilo criminale (killer, cassiere, autista, mazziere, ecc), comporta uno sforzo (spesso) vano e comunque non necessario per qualificare la posizione del singolo, giacché ciò che rileva, per potersi parlare di “partecipazione” ad un organismo mafioso, è, come ripetutamente affermato in giurisprudenza, la “compenetrazione col il tessuto organizzativo del sodalizio”; vale a dire, la messa a disposizione – in via tendenzialmente durevole e continua – delle proprie energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del contributo fornito dagli altri associati e della metodologia sopraffattoria propria del sodalizio (SU, n. 33748 del 12/7/2005). Definizione che comprende, all’evidenza, sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della partecipazione, poiché esprime la necessità che essa sia sorretta da affectio societatis e dalla interazione – causalmente orientata al conseguimento degli scopi sociali con gli altri associati. Si tratta, è bene precisarlo, proprio della conclusione a cui è pervenuta la più recente giurisprudenza (n. 33748/2005 e tutte quelle che l’hanno seguita) – spesso richiamata dai ricorrenti senza però farne puntuale applicazione – la quale, dopo aver sottolineato come la locuzione “prender parte” debba intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, ha chiarito, allorché si è spostata sul piano della dimensione probatoria, che rilevano, “tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa”; ed è stata ancora più chiara allorché, esemplificando, ha ricondotto tra gli indici della condotta partecipativa «i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi “facta concludentia”»; vale a dire, condotte che non identificano alcun “ruolo” specifico del partecipe, ma sono comunque indice di intraneità e di condivisione degli scopi associativi [….]»: Cass. 6882/2016 rv. 266064 (in motivazione § 3).
Alla suddetta motivazione si può aggiungere quanto segue: la conclusione alla quale sono giunte le cit. SSUU Mannino è nel senso che va considerato partecipe dell’associazione l’affiliato che “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Quindi, il fulcro del principio di diritto enunciato dalle SSUU è il concetto di “messa a disposizione per il perseguimento dei comuni fini criminosi“.
Sul piano fattuale e sociologico – come si illustrerà infra – “la messa a disposizione” non è altro che l’automatico effetto che deriva dall’essere stato ammesso nell’associazione mafiosa.
Sul piano semantico, la “messa a disposizione” indica un comportamento che concretizza il suo profilo dinamico nel momento (certus an, incertus quando) in cui all’associato viene chiesta una determinata prestazione nell’interesse dell’associazione, prestazione che non può permettersi di rifiutare, pena pesanti ritorsioni che vanno dall’espulsione (il cd. “spoglio”: cfr pag. 236 della sentenza, che implica l’isolamento dell’associato, trattato come un “paria” dall’ambiente sociale nel quale vive) fino all’eventuale soppressione fisica.
Quanto finora illustrato consente, pertanto, di ribadire che, per ritenere integrato il reato di partecipazione ad un’associazione mafiosa ex art. 416 bis co. 1 cod. pen., non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perché il reato associativo, secondo la struttura tipica dei reati di pericolo presunto, si consuma con la sola dichiarata adesione all’associazione da parte di un singolo, il quale mettendosi a disposizione per il perseguimento dei comuni fini criminosi, accresce, per ciò solo, la potenziale capacità operativa e la temibilità dell’associazione: circostanza, questa che integra la lesione del bene giuridico – ordine pubblico – tutelato dalla norma.
Inoltre, va affermato il principio secondo il quale, una volta che si entri a far parte di un’associazione mafiosa storica, la partecipazione deve ritenersi organica e stabile.
Per quanto riguarda la valutazione dell’affiliazione ad un’associazione mafiosa (nelle sue tre forme storiche: mafia siciliana; ‘ndrangheta calabrese; camorra napoletana) appare consolidato il dato storico secondo il quale il cd. rito di affiliazione costituisce un “unicum” delle suddette associazioni mafiose che può anche mancare nelle altre tipologie di associazioni criminali anche se ascrivibili all’ipotesi di cui all’art. 416 bis cod. pen. Infatti, sulla base dei documenti rinvenuti, delle inchieste giudiziarie e delle dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia, si può affermare che il rito di affiliazione affonda le sue radici proprio con la nascita delle suddette associazioni criminali tant’è che se ne ha traccia già verso la fine del 1800.
L’affiliazione – preceduta dal rito della cd. decontaminazione da presenze estranee del locale dove la cerimonia si svolge – si ha a seguito di un vero e proprio rituale al quale partecipano i maggiorenti dell’associazione, l’affiliando ed Il suo garante: nel corso dell’affiliazione, vengono lette formule rituali, all’esito delle quali il capo chiede il consenso dei presenti all’ammissione del giovane “all’onorata società”, ricevuto il quale, l’affiliando, dopo avere prestato giuramento, è “battezzato”. Indi, il nuovo affiliato viene presentato a tutti coloro che fanno già parte dell’associazione: da questo momento l’affiliato, entrando a far parte dell’associazione, diventa automaticamente un “uomo d’onore”, sintagma questo che non indica il ruolo ricoperto nell’ambito associativo, bensì lo “status” che si acquisisce per il semplice fatto di far parte dell’associazione e che lo impegna per tutta la vita.
Ed è proprio per l’alta simbologia di cui è permeata la cerimonia di affiliazione che non appare condivisibile ritenere che – in assenza di una qualche condotta che indichi quale sia il ruolo che l’affiliato ricopre nell’ambito associativo – la suddetta affiliazione abbia una valenza neutra ai fini della partecipazione all’associazione mafiosa.
L’affiliazione, infatti, essendo un vero e proprio pactum sceleris produce effetti bilaterali:
– da una parte, nei confronti dell’affiliato, il quale, per il semplice fatto di essere stato ammesso all’onorata società: a) diventa automaticamente un “uomo d’onore”; b) assume automaticamente il ruolo di “picciotto”, sicchè viene ad essere collocato sul primo scalino della scala gerarchica della struttura mafiosa; c) mette automaticamente “a disposizione” degli associati (ed, in primis, di coloro che si trovano in posizione apicale) le proprie energie ed i propri servizi; dall’altra, anche nei confronti dei componenti della struttura associativa che, a loro volta, s’impegnano a sostenere ogni affiliato e la sua famiglia (è noto che gli affiliati ed i loro stessi famigliari, in caso di carcerazione, sono aiutati economicamente dal clan di appartenenza) nonché ed aiutarlo in caso di bisogno (ad es. favorendone la latitanza).
Da quanto appena detto consegue che l’affiliazione va considerata, quanto meno, alla stregua di un vero e proprio concorso morale proprio perché il raggiungimento degli scopi associativi è facilitato e rafforzato dalla consapevolezza di ciascuno associato di poter fare preventivo affidamento sul contributo di ciascuno di essi (in terminis: Cass. 2148/1998 rv. 177662; Cass. 12591/1995 rv. 203948).
L’affiliato, quindi, non può essere considerato un neutrale e passivo osservatore delle dinamiche mafiose delle quali, peraltro, viene messo a conoscenza, ma diventa una parte organica dell’associazione che, quindi, per effetto della sua “partecipazione” viene, per ciò solo, ad essere implementata.
Si può, pertanto, affermare che, con l’ammissione di un nuovo affiliato, la potenza dell’associazione si accresce e, questo dato empirico, non può non avere effetti sul piano giuridico ai fini della repressione di una condotta ex se pericolosa per l’ordine pubblico, proprio perché, secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte, l’accertata intraneità di un soggetto in una associazione mafiosa «ne accresce la potenzialità operativa e la capacità di intimidazione, anche in ragione dell’aumento numerico dei suoi componenti» secondo quanto è desumibile da consolidate massime d’esperienza fondate sull’id quod plerumque accidit: ex plurimis, Cass. 26119/2003 rv. 228303; Cass. 5343/2000 rv. 215907 seguita da quella più recente supra cit.
A conclusione di quanto si è finora detto, è opportuno precisare che, secondo la condivisibile giurisprudenza di questa Corte che, in questa sede va ribadita, il reato di partecipazione all’associazione mafiosa di cui all’art. 416 bis co. 1 cod. pen. deve ritenersi integrato anche quando manchi la prova della cd. affiliazione, purchè, ovviamente, vi sia quella, anche per facta concludentia, che l’imputato sia inserito in modo organico nell’organizzazione criminosa: ex plurimis SSUU 33748/ 2005 cit.
Quanto finora illustrato, consente di affermare che il reato si consuma nel momento in cui un soggetto entra a far parte dell’associazione criminale, e per ciò solo, perché, in quel momento, si presume che l’ordine pubblico sia stato oggettivamente messo in pericolo: infatti, chi entra a far parte di un’associazione mafiosa storica entra in un contesto organizzativo antagonista a quello statale in cui il crimine è posto alla base dei “valori” associativi, e di cui si nutre per accrescere la sua influenza sul territorio in cui opera.
E’ chiara, pertanto, la ragione per cui è del tutto irrilevante pretendere di individuare il ruolo di ciascuno ed attendere, per la sua punibilità, il momento in cui diventi operativo, per poi, successivamente, valutare se e in che termini quel comportamento abbia determinato un rafforzamento dell’associazione (sul punto si rinvia alla motivazione di Cass. 6882/2016 cit.).
Infatti, chi entra in un’associazione mafiosa, vi entra perché ne condivide “i valori” su cui si fonda – ossia: la perpetrazione sistematica di crimini; la prevaricazione nei confronti dei cittadini ad essa estranei; la violenza contro chi tenta di opporsi; un malcelato senso dell’onore ecc… – per i quali egli s’impegna a mettere a disposizione tutte le proprie energie, le proprie capacità, le proprie competenze, quando sarà il momento e quando ne sarà richiesto, per il bene, la potenza ed il successo dell’organizzazione.
In ciò sta, quindi, il pericolo per l’ordine pubblico ed è per tale motivo che l’art. 416 bis co. 1 cod. pen. richiede, per la punibilità, in modo neutro, il semplice “far parte di un’associazione di tipo mafioso”, proprio perché quella particolare modalità di adesione costituisce un indice univoco della circostanza che il soggetto viene consapevolmente ad accrescere la potenziale capacità operativa e la temibilità dell’organizzazione.
Certamente, i ruoli e l’importanza che ciascun partecipe ricopre all’interno dell’associazione possono essere differenti, ma, questa differenza può avere rilevanza solo a livello di trattamento sanzionatorio e va risolta, ex art. 133 cod. pen.
In conclusione, la censura dedotta dai ricorrenti dev’essere disattesa alla stregua del seguente principio di diritto: «ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso storico – da qualificarsi come reato di pericolo presunto – non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perché il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla sola sua dichiarata adesione all’associazione con la cd. “messa a disposizione” ».
Cass. penale, sez. II, 31 maggio 2017, n° 27394